Il carcere e lo Yoga


Giovedì è il giorno che dedico ai detenuti dell’alta sicurezza del carcere delle Vallette di Torino. Insegno Yoga insieme ad alcuni miei amici: Micaela, Erica e Roberto.

Per chi non è abituato, l’impatto con l’istituto di detenzione genera pensieri contrastanti.

Nella mia mente predomina la curiosità di fare esperienza di una realtà sconosciuta ai più: vediamo cosa succede!

Come un rito, ogni volta compiamo le stesse azioni per accedere al padiglione, dove ci attendono i nostri allievi. Superati i controlli dei documenti da parte della polizia penitenziaria, le registrazioni, i passaggi attraverso le porte metal detector, porte e portoncini… ci troviamo nella “vasca”.

Grazie alla filmografia americana, conosciamo il luogo dove il detenuto trascorre la cosiddetta ora d’aria. Pare di stare sul fondo di una piscina in cemento armato, un luogo senza alberi, con alcuni scaloni da utilizzare come sedie…ecco, qui si svolgono le lezioni di Yoga, al momento. Confidiamo di avere presto un locale più adatto allo scopo.

Ho sempre considerato lo spazio come un luogo che con la mente possiamo trasformare, basta non reagire! In questo squallore, in realtà gli unici a reagire, almeno all’inizio, siamo stati noi insegnanti! Consci che entrando nel vivo della lezione sarebbero svanite tutte le limitazioni architettoniche e psichiche del carcere.

Incontriamo i detenuti, che per la loro storia criminale sono stati allontanati dalla società. Ci aspettiamo individui “duri e burberi”, poco propensi alle proposte yoga: tutt’altro! Dal primo incontro, superata la diffidenza iniziale, il gruppo di persone che segue le lezioni si rivela molto rispettoso e partecipe, direi grato per l’attenzione dedicata.

Passano diversi Giovedì e facciamo amicizia, conosciamo parte delle loro storie, quello che vogliono raccontarci e anche le loro timide aspirazioni.

Noi insegnanti ci consultiamo per definire la struttura delle lezioni. Stabiliamo che il programma è di non avere un programma, ci premuriamo di creare uno spazio energetico armonioso, dove i consigli di movimento fisico ed i concetti mentali si intersecano, per abbattere almeno i muri che sono nel cervello.

Osservando gli allievi, notiamo che manifestano molti disagi, esprimono solo quelli fisici, ma sono evidenti anche quelli psichici.

Occorre rivedere la triade per il mantenimento della salute (movimento fisico, alimentazione e meditazione) che in questo contesto riscontra notevoli resistenze da parte della struttura organizzativa.

La direttrice del penitenziario ha voluto inserire lo yoga nel carcere per alleviare gli effetti dello stress, causato inevitabilmente dalla detenzione. Ricordiamo che sono molti i suicidi che avvengono nelle celle degli istituti penitenziari! Ma lo yoga non è accettazione, è un atto rivoluzionario che contribuisce alla nascita di un nuovo individuo – detenuto o meno -, che sperimenta se stesso, per trasformarsi in meglio rispetto a prima.

Finita la lezione, scambiamo qualche chiacchiera con i detenuti e salutandoli ci poniamo la domanda: quale futuro può avere chi nasce in una famiglia del crimine organizzato? In alcuni casi, con l’aiuto delle mamme, questi bimbi vengono allontanati dalla famiglia originaria, al fine di garantire loro un futuro diverso. L’allontanamento è un atto violento, probabilmente il male minore, che verrà compreso in età adulta.

Ogni stato, a seconda della sua maturità e umanità, tratta in modo diverso i propri detenuti. Nel mondo ci sono storie di maltrattamenti, torture e vendetta, ma anche storie come quella del poliziotto Kiran Bedi, una donna diventata Ispettore Generale del carcere di Tihar a Nuova Delhi, la più grande prigione in India, con quasi 10.000 detenuti.

Kiran Bedi ha introdotto la meditazione nel carcere per preparare i detenuti al rientro positivo nella società e rendere l’ambiente carcerario più armonioso e pacifico; il successo della sua iniziativa ha permesso di introdurre la meditazione in numerosi istituti di pena indiana.